Movie Thumb

The quiet girl

26 Gennaio , 2023

0.0
0 Reviews

----

Archivio

---

Movie Story

venerdì 17 ore 17.20 – 21.20
sabato 18 ore 18.30
domenica 19 ore 16.00 – 20.40
lunedì 20 ore 19.20
martedì 21 ore 21.20
mercoledì 22 ore 17.20

giovedì riposo settimanale

Regia di Colm Bairéad, con Catherine Clinch, Carrie Crowley, Andrew Bennett, Michael Patrick Carmody. Titolo originale: An Cailín Ciúin. Genere Drammatico, – Irlanda, 2022, durata 97 minuti. Uscita cinema giovedì 16 febbraio 2023 distribuito da Officine Ubu.

Irlanda. Cáit è una bambina di nove anni che cresce in una famiglia di contadini impoveriti. Taciturna e trasandata, è malvista dalle sorelle, dal padre disattento e dalla madre che si occupa del fratellino e di un nuovo bambino in arrivo. Con l’arrivo dell’estate e il termine della gravidanza della madre, Cáit viene mandata dai Kinsella, coppia senza figli che si è offerta di badare a lei. Accolta in un ambiente pulito e rassicurante, la bambina lega con Eibhlín, donna dolce e premurosa, mentre mantiene le distanze con il cupo ma gentile Seán. Con il tempo la bambina fiorisce e impara ad avere rispetto per sé stessa, trovando il modo anche di comunicare con Seán. Prima di tornare a casa conoscerà il segreto dei Kinsella e stringerà un legame ancora più forte con le uniche persone che hanno saputo amarla.

 

Il primo film di finzione di Colm Bairéad è un piccolo miracolo che con il silenzio come qualità d’ascolto, suggerisce un cinema apparentemente semplice, ma che in virtù di questa semplicità, assegna alle immagini tutta l’ampiezza del possibile.

Colm Bairéad si è formato realizzando una serie di prodotti eterogenei per la televisione, il cui denominatore comune è il documentario sociale legato alla Storia irlandese. The Quiet Girl è il suo primo film di finzione e ha riscosso una notevole considerazione in patria, dopo il premio del pubblico ottenuto alla scorsa Berlinale nella sezione Generation Kplus. Del documentario, il film conserva l’attenzione per rituali e gesti della realtà quotidiana, trasfigurati da un linguaggio che non forza mai la gradazione di poeticità, se non nella vicinanza emotiva e sensoriale all’esperienza dei protagonisti, immersi in un contesto rurale, ricco di piccole epifanie. Ambientato nella Contea Irlandese di Waterford durante il 1981, è parlato interamente in gaelico, anche se la lingua, oltre ad assumere un significato identitario, si confonde con i rumori dell’ambiente naturale e con la routine del lavoro in campagna, dove il silenzio predomina. La giovanissima Catherine Clinch interpreta Cáit, una bambina di nove anni immersa in un silenzio introverso e travolta da una comunità che vive ad una velocità insostenibile per il suo spirito. Scuola e famiglia sono luoghi inospitali e soprattutto la seconda è costituita da una madre disattenta e sempre incinta, un nugolo di sorelle moleste e un padre anaffettivo concentrato in modo morboso sulle necessità del lavoro. Spedita in campagna per passare le vacanze estive da una cugina materna, entrerà in contatto con una realtà che sembra accordarsi con il suo modo di percepire e vivere il tempo. L’invito non detto è quello ad aprirsi per imboccare un percorso di formazione che le consenta di fiorire, con le cure di una coppia amorevole che ha già conosciuto l’amore filiale e il dolore della perdita. Su queste due semplici condizioni del vivere, Bairéad e la direzione della fotografia affidata a Kate McCullough, addensano in un formato 4:3 vicino agli elementi del quotidiano, una contemplazione della bellezza che nasconde e rivela il dolore, attraverso le gradazioni della scoperta interiore. L’accumulo di azioni e gesti che nel breve racconto di Claire Keegan da cui il film è tratto, servono alla bambina per definire questo nuovo luogo con nuove parole, consentono a Bairéad di eliminare il flusso interiore della versione letteraria, per assegnarlo interamente allo sguardo e alla contemplazione aurale. La parola, quasi completamente sottratta, non determina più la consistenza dei fenomeni, ma è la capacità creativa del gesto a suggerirci il tipo di esperienza che Cáit sta vivendo. Quando al contrario l’uso della stessa cerca di connotare la qualità di uno stato d’animo, allora genera fraintendimenti, sovverte l’ordine di realtà, ferisce e soprattutto, introduce il giudizio per distruggere la continuità indicibile tra la vita e la morte. Su quella continuità i Kinsella hanno edificato la propria forza, convertendo il dolore della perdita nella ripetizione rituale dei gesti che attengono al mantenimento del caseificio e alla cura dei lavori domestici. La lentezza del loro quotidiano è l’immersione sensoriale nel tempo arcaico della campagna, fuori dalla cronologia, anche quella degli anni ottanta. Con grande sensibilità, Bairéad pratica un cinema spinto verso una forte soggettivizzazione dell’esperienza, ma allo stesso tempo attento al respiro di tutti i personaggi, calati in una dimensione osservata sempre a distanza. Si stabilisce allora una relazione attiva tra gli oggetti, i sentimenti, le azioni e lo spazio fisico, con la forza possibile e unificante di uno sguardo alla ricerca di nuovo senso. Il silenzio di Cáit ci parla attraverso il taglio periferico con cui coglie le conversazioni degli adulti, grazie ad un utilizzo prospettico del suono che privilegia altri significati, altri rumori sui quali concentrare attenzione. L’occasione suggerita da Forest, il racconto della Keegan che abbiamo già citato, viene accolta da Bairéad con la scelta di caratterizzare il proprio film a partire dalla presenza concreta del silenzio inteso come qualità d’ascolto. Questo esser presenti entro un flusso produttivo quotidiano, senza esserci, descrive anche The Quiet Girl a partire dall’idea di un cinema apparentemente semplice, ma che in virtù di questa semplicità, assegna alle immagini tutta l’ampiezza del possibile. L’allontanamento di Cáit sulle tracce di un ricordo che non le appartiene, ma che permea radicalmente luoghi e persone come se fossero un’emanazione della coscienza, potrebbe assumere, senza marcature linguistiche visibili, la qualità della fiaba e quella della tragedia. Bairéad non spinge né in una direzione né dall’altra, sottraendo la funzione descrittiva dell’immagine e indirizzando alla capacità combinatoria del nostro sguardo, la responsabilità di mettere insieme tutti i segni. Accade davanti alla contemplazione di una bara aperta, dove un’intera comunità si raduna per la veglia di un amico morto. Si sdipana nei piccoli gesti che intercorrono tra Cáit e Seán, il marito della cugina Eibhlín, interpretato da un notevole Andrew Bennet. Ed è proprio la relazione tra la bambina e l’uomo a raccontare la trasformazione di un sentimento di estraneità in affetto filiale e amore paterno, attraverso la comunicazione non verbale e la supremazia del gesto sulla parola. Su quell’affetto mai dichiarato, ma definito attraverso le modalità di abitare il tempo riempiendolo di senso, Bairéad costruisce una sequenza tanto bella quanto straziante nella sua possibilità espressiva, facendo coincidere in un controcampo, il riconoscimento di una paternità non biologica con la sconnessione da una realtà famigliare, ma aliena. Quella contrazione che Keegan descriveva con la frase “Daddy,” I keep calling him, keep warning him. “Daddy.”, nella visione di Bairéad allineata all’occhio di Cáit, ormai messaggera della propria interiorità, fa coesistere protezione e paura, amore e in profondità di campo una minaccia che possiamo solo intuire.