Regia di Marielle Heller; con Melissa McCarthy, Richard E. Grant, Dolly Wells, Jane Curtin, Ben Falcone; titolo originale: Can You Ever Forgive Me?; USA, 2018, durata 106 minuti
New York, 1991. Lee Israel ha un grande talento e un pessimo carattere. L’alcolismo e la misantropia, le alienano qualsiasi possibilità di carriera. Licenziata per un bicchiere e un insulto di troppo, deve trovare un altro modo, e deve trovarlo presto, per sbarcare il lunario e curare il suo adorato gatto. Due lettere di Fanny Brice, rinvenute per caso in un libro della biblioteca e vendute a 75 dollari, le forniscono l’idea che cercava. Biografa talentuosa, mette a frutto la sua conoscenza della materia e il suo talento di scrittrice. Seduta alla macchina da scrivere compone finte lettere di grandi autori scomparsi. Affiancata da Jack Hock, spirito libero col vizio del sesso, Lee riesce nell’impresa. Almeno fino a quando l’FBI non si mette sulle sue tracce.
Copia originale non è una commedia ma si sorride sovente, è ambientato al debutto degli anni Novanta a New York ma le canzoni sono dei classici di un passato remoto (Jeri Southern, Peggy Lee, Dinah Washington), è dominato dall’insegna luminosa del “The New Yorker” ma la sua protagonista è una scrittrice nell’ombra.
Tutto è spostato nel film di Marielle Heller e tutto contribuisce a ricostruire l’illusione alla base del sorprendente processo di falsificazione di Lee Israel. Ma a guardarlo più da vicino e andando oltre la frode seriale, Copia originale racconta la vita di una donna che non trova il suo posto in un mondo che cambia, in una città dove chiudono le librerie e aprono gli Starbucks, dove aumentano gli spazi di coworking e si riducono quelli in cui respirare (e leggere) in pace, dove la decimazione della comunità gay avanza con quella della cultura artistica.
Autrice di diverse biografie popolari apparse nella Best Sellers List del “New York Times”, Lee Israel è in caduta libera come la sua carriera. Ed è a questo punto della china che decide di fingersi qualcun’altra rimanendo incredibilmente se stessa. Perché le personalità celebri che ‘interpreta’ così bene nelle sue lettere condividono con lei il carattere sferzante e l’ingegno sfacciato. Scrittrice di inchiostro e bile, whisky e sangue, Lee Israel è una misantropa fuori norma e una compagnia non sempre piacevole. Una persona che non interessa alla gente e a cui d’altra parte non interessa la gente, a meno di non essere un gatto o Dorothy Parker.
La brillante creatività verbale, essenziale per la sua arte, diventa uno scudo che impone la riservatezza anche a prezzo della solitudine. Una solitudine testarda, che rifiuta qualsiasi possibilità di intimità e uno spirito affine e gentile come Anna, fan dei suoi libri e libraia a cui vende le sue lettere.
Copia originale, adattamento del romanzo (autobiografico) di Lee Israel (“Can you ever forgive me?”), svolge la sua formazione da falsaria autodidatta, sottolineando il suo genio nell’imitare gli stili precisi delle celebrità (Dorothy Parker, Louise Brooks, Margaret Mitchell, Noël Coward, Edna Ferber, Lillian Hellman e ancora) a cui aggiunge, per qualche dollaro in più, un surplus d’anima. D’altronde serve un’innegabile verve e padronanza della materia per ingannare così spesso e così a lungo specialisti e storici dell’arte. Alla sua morte, nel 2014, Lee Israel era più conosciuta per la sua carriera criminale che per quella giornalistica e letteraria. Marielle Heller la coglie al debutto degli anni Novanta, disegnando un ritratto caustico e malinconico di un’autrice che sognava un po’ di riconoscenza da un’ambiente che non le aveva mai dato davvero una chance. In questo senso, Copia originale è un grande film sulla fragilità dell’atto di scrivere. Una riflessione su un’arte impulsiva, arbitraria, capricciosa che spezza le vene delle mani e interroga un talento che qualche volta non c’è e qualche altra non viene riconosciuto.
Ma Copia originale è anche e soprattutto un film su Melissa McCarthy, confinata nelle commedie sregolate hollywoodiane, dove ha imposto lo stile scatologico e regressivo in cui eccelle. Attrice comica senza misura e misure (conformi), incarna superbamente e mestamente il suo primo ruolo drammatico. Dopo aver ‘stirato’ le meches bionde di Donald Trump al SNL (la caricatura di Sean Spicer, portavoce della Casa Bianca dimesso), inciampa in una donna sovente sgradevole che riesce tuttavia a rendere empatica e profondamente umana. La sua Lee Israel si rivela un’antieroina irresistibile, quella vera un’occasione per sperimentare una gravità nuova, che frena gli istinti comici sfrenati e spinge sulle nuance drammatiche.
Da qualche parte tra attitudine irrispettosa e affermazione aforistica, si compone il profilo tragicomico di un’artista che ha rigettato per prima il mondo per paura di esserne respinta. È solo davanti a Jack Hock, il migliore e solo amico di Lee, che la guardia si abbassa. A interpretarlo è Richard E. Grant, ricordandoci che attore incredibile sia con una partitura all’altezza del suo valore. Gay gaudente e (auto)distruttivo, Jack forma con Lee un tandem etilico orgogliosamente disperato. Se lei si crede (a ragione) Dorothy Parker, lui si prende per Oscar Wilde in una geografia urbana di librerie preziose e di gay bar ospitali del West Village. Copia originale abita lì, in quei luoghi di resistenza e tolleranza, riuscendo in quello che a pochi biopic riesce: rendere un personaggio difficile una gioia da incontrare