giovedì 3 ore 17.15 e 21.20
venerdì 4 ore 19.20
sabato 5 ore 18.20
domenica 6 ore 20.30
martedì 8 ore 17.15 (in vers.it) e 21.30 (in vers. orig. sott.)
mercoledì 9 ore 19.20
LUNEDI’ RIPOSO
Regia di Kornél Mundruczó, con Lili Monori, Annamária Láng, Goya Rego, Padmé Hamdemir, Jule Böwe. Cast completo Titolo internazionale: Evolution. Genere Drammatico, – Germania, Ungheria, 2021, durata 97 minuti.
Piombati nell’inferno concentrazionario tre soldati polacchi provano a lavare l’impossibile. A turno gettano secchi d’acqua sul pavimento, insieme spazzano con vigore le pareti fino a rimuovere dall’intonaco ciocche di capelli intrecciati come un enigma. Poi un grido sorge da quel luogo sotterraneo dove la morte inghiottiva in massa. È il pianto vivo di Eva. Anni dopo, il trauma di quella bambina, sopravvissuta alla Shoah, passa come una maledizione a sua figlia, Lena, che ha un figlio adolescente e una vita senza pace, e poi al nipote, Jonas, che vive con la madre a Berlino e si innamora per scongiurare le aggressioni razziste di un nuovo secolo. Tre esistenze, la stessa famiglia marcata dalla Storia.
La nostra epoca ha la cattiva abitudine di ridurre i confini. Sul piano estetico tra fiction e realtà, sul piano etico tra carnefice e vittima, sul piano politico strumentalizzando il “dovere della memoria”. Per rispondere a questa mancanza di distinzione, che tutto confonde, il cinema ha distinto tre temporalità possibili che producono altrettanti generi. La prima è quella della Storia, raccontata dai documentari, è il tempo del racconto lineare, dettagliato e pedagogico che sa risalire alle cause immediate e lontane della “lunga durata”; la seconda è quella della fiction, frazionata dal montaggio in flashback e flashforward destinati a formare frammenti narrativi autonomi il cui legame si rivela dopo l’evento; la terza è il tempo pieno e insostituibile dell’esperienza umana concreta, che cogliamo ogni volta che guardiamo e ascoltiamo una testimonianza vissuta.
Kornél Mundruczó ricorre alla fiction, che non è meno franca e seria di un documentario. L’impatto cinematografico di una maniera o di un’altra è a misura del talento della personalità che la esprime, Claude Lanzmann, Marguerite Duras, Roberto Benigni. L’efficacità delle loro opere, come del nuovo film di Mundruczó, sta tutta nella loro argomentazione e nella forma che la regge. Quel giorno tu sarai sposa la visione soggettiva della Shoah introducendo la storia individuale in quella collettiva, traducendo un punto di vista, tre punti di vista.
L’autore ungherese fa vivere l’orrore attraverso tre personaggi contemporanei che si battono, ciascuno a suo modo, con un passato difficile da assumere.
I meccanismi di difesa disperata passano per la negazione, per la collera, per la colpa, per la vergogna e i protagonisti ne sono la complessa rappresentazione. Mundruczó evoca l’esperienza concentrazionaria, la incarna in Jonas, in una nuova generazione, per suscitare una proiezione e un’identificazione capace di implicarla.
La storia di questo adolescente che eredita con l’identità ebraica della nonna un dramma che non ha mai conosciuto, è un monito a tenere alta la vigilanza su quello che accade ogni giorno nel mondo. Creatrice di immagini, la letteratura ha aperto la via al cinema, documentario o finzionale che sia.
Dall’autobiografia ieratica di Imre Kertész (“Essere senza destino”), che ha ispirato l’episodio di apertura (“Eva”), alla “memoria riflessiva” di Primo Levi (“I sommersi e i salvati”), la ‘poesia’ diventa (forse) la migliore traduzione possibile del carattere metafisico di un’esperienza di disumanizzazione, un’esposizione testimoniale evocativa per dire la sua tragica opacità.
Kornél Mundruczó, ricorrendo ancora una volta alla virtuosità del piano-sequenza, centrale in Pieces of a Woman, gira un racconto in tre atti di risonanze intime di una tragedia storica su una famiglia ungherese. Ogni capitolo è sviluppato attraverso un piano sequenza di trenta minuti. Attraverso questa tecnica, evidentemente artificiale, Mundruczó non ha nessuna velleità di naturalismo o di ri-trascrizione in tempo reale, l’autore costruisce una ‘stanza-mondo’, una escape room in cui invita e poi costringe lo spettatore perché vi si getti corpo e anima, perché reagisca alle sue regole. L’impresa è spinta al parossismo nel primo episodio in cui vediamo tre uomini entrare in un seminterrato, svuotare secchi d’acqua, strofinare muri con gli spazzoloni. La paura è palpabile ma passa tutto per gli sguardi, ‘non ci sono parole’.
Mundruczó fa meraviglie, governando la macchina da presa che registra gli ingressi degli attori in campo, entrate puntuali e perfette. Cosa fanno quegli uomini? Cos’è quel movimento spasmodico che li muove e li squassa? Il racconto rivela il suo mistero alla fine di una mezz’ora opprimente, praticamente in apnea, poi riprendiamo progressivamente a respirare e facciamo la scoperta perturbante dello spazio. E nessuno sa metterlo in scena come Mundruczó, che filmi una zona di guerra o un dialogo in soggiorno, tutto assume la dimensione di smarrimento, di terrore quasi solenne. Quell’impressione proviene da quello che il regista ‘attira’ nel campo della sua mdp. Qualcosa che non si posa mai veramente e gira intorno, che si palesa e si ritira.
I piani-sequenza in Quel giorno tu sarai non sono mai un mero esercizio stilistico, la decisione di non tagliare è una maniera di ribadire gli occhi ben aperti, di rifiutarsi di chiuderli. Non c’è tregua davanti al lavoro della memoria, non c’è silenzio davanti alla Storia. La messa in scena per l’autore è una superficie che monta e minaccia a ogni istante di strabordare, l’orrore risale l’immagine come un ricordo rimosso, come i capelli dei detenuti, ‘reliquie’ di un martirio e rappresentazione simbolica dell’orrore, o come l’acqua, ‘diluvio biblico’ che lava via fino a cancellare le tracce della storia: libri, foto, documenti di famiglia.
Mundruczó, autore radicale che continua la sua esplorazione delle identità e degli avvenimenti che ‘forgiano’ l’Europa (Una luna chiamata Europa), interroga le tracce lasciate dalla Shoah su generazioni differenti. Attraverso Eva, Lena, Jonas il film traccia la cartografia di un inconscio ‘di famiglia’ mai placato. Il formato quasi quadrato (4:3) rinforza il sentimento di un film ritratto piuttosto che affresco.
Quel giorno tu sarai è ‘tagliato’ non a misura del ‘paesaggio’, del mondo fuori, ma della relazione che i personaggi intrattengono con la loro vita, con la loro storia, con il loro io profondo, con la voce di dentro. Mundruczó non ricrea la realtà, prova piuttosto a esplorare quello che c’è di più personale in un trauma, di più soggettivo, prova a dare forma a un ricordo persistente aggrappato da qualche parte nella memoria di Eva, che ha perso la testa e la salute, che ha difficoltà ad assumere la propria identità (ungherese, ebraica, tedesca?), che non sa quale lingua parlare e come parlare a sua figlia, sopravvissuta all’eredità di una tragedia familiare.
Chiude il film il nipote di Eva che rifiuta la sua ebraicità, così difficile da portare per i suoi pochi anni. Solo Lena tenta di raccordare quello che costituisce l’essenza della loro esistenza, tenendo viva con la luce di una “lanterna” la tradizione ebraica e l’oltraggio subito dal suo popolo. Tre voci per comprendere la meccanica di un trauma che sopravvive anche molto tempo dopo nelle persone, tra una madre e una figlia, tra una nonna e un nipote.
‘Giocando’ con l’acqua e col fuoco, Quel giorno tu sarai fa i conti con la continuità dell’esperienza dell’antisemitismo, dai campi di sterminio ai fascismi contemporanei, sulle generazioni, rendendolo ancora più insopportabile e dimostrando che un’opera può sostituirsi all’impotenza della rappresentazione prendendo coscienza dei propri limiti e facendo di quei limiti la misura e il mezzo del suo potere.
Come Pieces of a Woman, Quel giorno tu sarai è basato su una pièce di Kata Wéber, conta su Lili Monori, monumentale nell’atto più teatrale del film, indaga ottant’anni di memoria sullo sfondo muto di nuovi estremismi, comprime il tempo e lo spazio per sondare il futuro e chiude su una nota di speranza, un finale arioso, contro l’incipit claustrofobico, rivolto verso l’avvenire. (Marzia Gandolfi, mymovies.it)