giovedì 9 ore 17.15 – 19.20
venerdì 10 ore 19.20 – 21.30
sabato 11 ore 16.00 – 20.30
domenica 12 ore 18.30 – 20.30
martedì 14 ore 17.15
mercoledì 15 ore 21.30
Regia di Ken Loach, con Kris Hitchen, Debbie Honeywood, Rhys Stone, Katie Proctor, Ross Brewster. Titolo originale: Sorry We Missed You. Genere Drammatico – Gran Bretagna, Francia, Belgio, 2019, durata 100 minuti. Uscita cinema giovedì 14 novembre 2019 distribuito da Lucky Red
Ricky, Abby e i loro due figli, l’undicenne Liza Jane e il liceale Sebastian, vivono a Newcastle e sono una famiglia unita. Ricky è stato occupato in diversi mestieri mentre Abby fa assistenza domiciliare a persone anziane e disabili. Nonostante lavorino duro entrambi si rendono conto che non potranno mai avere una casa di loro proprietà. Giunge allora quella che Ricky vede come l’occasione per realizzare i sogni familiari. Se Abby vende la sua auto sarà possibile acquistare un furgone che permetta a lui di diventare un trasportatore freelance con un sensibile incremento nei guadagni. Non tutto però è come sembra.
Verso la fine dei titoli di coda si leggono queste parole: “Grazie a tutti quei trasportatori che ci hanno fornito informazioni sul loro lavoro ma non hanno voluto che i loro nomi comparissero”. In questa breve frase è sintetizzata la modalità di lavoro di Ken Loach (e del suo sceneggiatore doc Paul Laverty): costruire una storia solida sul piano cinematografico senza mai dimenticare la realtà.
Quella ritratta da Ken Loach è una realtà formata da persone che nel non voler comparire denunciano implicitamente la condizione di precarietà in cui operano. Ci sarà probabilmente chi affermerà che siamo di fronte all’ennesimo comizio di un regista che non ha mai nascosto da quale parte batte il suo cuore. Bene, se questo è un comizio lo erano anche, sul piano letterario, “I miserabili” di Victor Hugo o l'”Oliver Twist” di Charles Dickens (solo per fare un esempio).
Loach non scrive romanzi, dirige film ma lo fa con la stessa passione e anche, perché no, con la stessa forma di indignazione. Non si tratta mai con lui di pauperismo, di commiserazione e tantomeno di populismo. A un certo punto del film c’è una reazione verbale da parte di uno dei protagonisti che, se non fosse che al cinema ci si comporta diversamente che a teatro, spingerebbe all’applauso. In quel momento ti accorgi di come Loach abbia saputo leggere non solo nella psicologia dei personaggi (che nel suo cinema sono sempre ‘persone’) ma pure in quella dello spettatore.
Anche sul piano più strettamente cinematografico il suo si presenta come un lavoro tanto partecipe quanto accurato. L’apparente semplicità del suo modo di riprendere richiede un gran lavoro con gli interpreti e fa costantemente leva sulle sue doti di documentarista capace di trasferire la realtà nel cinema di finzione. Si osservino i dialoghi a tavola in famiglia e ci si accorgerà di come vengano portati sullo schermo con la naturalezza di una candid camera. Perché Loach ad ogni film ci chiede non solo di guardare quanto accade seduti sulla nostra comoda poltrona ma di condividere i disagi e le problematiche che ci propone. Ci chiede di confrontarci con quella ‘normalità’ feroce che oggi, come ai tempi della rivoluzione industriale ma con più sofisticata e globalizzata malizia, il dio mercato impone.
Abby, Ricky, Seb e Liza Jane non sono supereroi, non hanno nulla di straordinario nelle loro vite. Sono semplicemente una famiglia, con le proprie difficoltà e con una unità che si vorrebbe far vacillare. Al di là dei proclami retrogradi o interessati di cui la parola ‘famiglia’ viene sempre più spesso fatta oggetto Ken Loach ci ricorda che elemento imprescindibile della sua coesione è, oggi più che mai, la dignità del lavoro che troppo spesso viene sistematicamente conculcata. La schiavitù non è stata abolita. Ha solo cambiato nome. Ken e con lui (in tutt’altro ruolo) Francesco non smettono di ricordarcelo. (Giancarlo Zappoli, mymovies.it)