lunedì 20 ore 21.20
martedì 21 ore 17.00
mercoledì 22 ore 19.10
Regia di Laura Poitras, con Nan Goldin, Alfonse D’amato, Ed Koch, John Mearsheimer, Cookie Mueller. Titolo originale: All the Beauty and the Bloodshed. Genere Documentario, – USA, 2022, durata 113 minuti
LEONE D’ORO AL FESTIVAL DI VENEZIA 2022
UN DOC STRATIFICATO CHE ASSOCIA, TRAMITE LA FORZA DELLE IMMAGINI, IL FARE ARTISTICO A UNA PRESA DI POSIZIONE POLITICA (Raffaella Giancristofaro, mymovies.it)
Nel 2018, insieme all’associazione da lei fondata, PAIN (acronimo di Prescription Addiction Intervention Now), la nota fotografa Nan Goldin è protagonista di un’azione di protesta presso il MET di New York. È la prima di una serie di contestazioni plateali che puntano alla cancellazione del nome della famiglia Sackler (fondatrice e proprietaria di una delle più importanti case farmaceutiche statunitensi) dall’elenco dei nomi dei sostenitori e dalle sale o donazioni a loro intitolate. Il primo passo simbolico per denunciare le micidiali ricadute del fenomeno noto come “epidemia degli oppioidi”, il consumo massiccio e indotto di farmaci a base di ossicodone (che provocano una forte dipendenza e portano a dipendenze maggiori): centosettemila morti per overdose negli Stati Uniti solo nel 2021, con tutte le conseguenze sociali ed economiche derivanti.
In quanto parte di una generazione che ha avuto grande familiarità con le droghe, sopravvissuta lei stessa a un’overdose e alla tragica sottovalutazione dell’AIDS, Goldin è particolarmente decisa a combattere la battaglia. E racconta senza filtri alla macchina da presa di Laura Poitras, che la segue per tre anni, molte questioni personali.
Quella originaria è strettamente legata a una concezione impropria e criminale della medicalizzazione, che ha portato al suicidio della sorella Barbara. Un trauma da sempre negato e censurato dalla famiglia.
La guerra americana in Iraq (My Country, My Country), il terrorismo islamico e Guantanamo (The Oath), Julian Assange e Wikileaks (Risk), Edward Snowden (Citizenfour): con la stessa intraprendenza e sprezzo del pericolo, per il suo ultimo film, in concorso a Venezia 2022, Laura Poitras continua a scegliere contesti e individui di eccezionale resistenza e anticonformismo. Ma in All the Beauty and the Bloodshed (“tutta la bellezza e lo spargimento di sangue”, una citazione che ha a che fare con “Cuore di tenebra” di Joseph Conrad, il cui senso è svelato nel finale) la traccia investigativa, giornalistica, caratteristica suoi lavori precedenti, ha uno spazio meno preponderante, affidato in parte agli interventi di Patrick Radden Keefe (autore di “L’impero del dolore”, libro inchiesta sulla dinastia Sackler, che finanzia anche università come Harvard, ed è costruito sulla fortuna del Valium).
In primo piano sta invece quasi sempre l’insieme dell’opera di Nan Goldin, intrecciata a una biografia selvaggia, ai margini. Classe 1953, cresciuta in un sobborgo borghese per poi essere data in affido e aver vissuto nel nomadismo ribelle tra varie sottoculture, Goldin è nota per le sue sequenze di diapositive proiettate come film prima nei locali underground e poi nelle gallerie, la più nota delle quali è “The Ballad of Sexual Dependency”.
Una serie di scatti realizzati tra fine anni ’70 e anni ’80, nella comunità artistica libera e trasgressiva di New York, dove Goldin ha trovato la sua famiglia d’elezione. Quella che ritrae in foto intime, spesso di nudo, in interni ordinari quando non squallidi, a messinscena zero. Una costellazione di dropout da discografia dei Velvet Underground, un’umanità di drag queen, prostitute, performer, punk, persone amate. Molte decimate dall’HIV, identificato come malattia degli omosessuali maschi e anche questo, proprio come l’abuso di farmaci oppioidi, sottovalutato dalla politica.
Arte e vita si rincorrono e si nutrono l’una dell’altra, lo sentiamo direttamente dalla voce rauca di Goldin, che riflette con lucidità sulle proprie immagini, la loro risonanza nel tempo, il loro odore, le esperienze collegate. È questo – molto oltre la denuncia dell’avidità del gruppo farmaceutico, clamorosamente scampato a processo penale, o la cronaca degli attivisti di PAIN – il solido pregio di un film stratificato e compatto: associare, tramite la forza delle immagini, il fare artistico a una presa di posizione politica. Identificare cioè nell’ipocrisia di famiglia e società le radici del suicidio di una nazione che censura, vittimizza e stigmatizza chi diventa dipendente e non chi vive del profitto di quella dipendenza.
Dinamiche di negazione distruttive che Goldin ha cercato per tutta la vita di esplicitare, cercando di smascherare i rapporti di potere, sottomissione, assuefazione. Anche in veste di contestatrice, il gesto di Goldin, ripreso da Poitras, è artistico: alla tentata riabilitazione del marchio con attività culturali e filantropiche ribatte col lancio dei (finti) flaconi di OxyContin nella vasca del Metropolitan Museum of Art di New York. Un’altra immagine che è lì per restare.