È di sole che ha bisogno la salute e l’arte di Vincent van Gogh, insofferente a Parigi e ai suoi grigi. Confortato dall’affetto e sostenuto dai fondi del fratello Theo, Vincent si trasferisce ad Arles, nel sud della Francia e a contatto con la forza misteriosa della natura. Ma la permanenza è turbata dalle nevrosi incalzanti e dall’ostilità dei locali, che biasimano la sua arte e la sua passione febbrile. Bandito dalla ‘casa gialla’ e ricoverato in un ospedale psichiatrico, lo confortano le lettere di Gauguin e le visite del fratello. A colpi di pennellate corte e nervose, arriverà bruscamente alla fine dei suoi giorni.
Pittore celebre negli anni Ottanta, Julian Schnabel si converte al cinema negli anni Novanta e realizza il suo primo film su un soggetto seducente ma cimentoso (Basquiat), evitando i rischi maggiori (agiografia melensa e glamour smaccato) e procedendo per tocchi fugaci.
Un film su un pittore è raramente realizzato da un pittore ma Schnabel ne gira addirittura due. Ventidue anni dopo trasloca in Francia per raccontare il bisogno permanente di Van Gogh di dipingere. Come fu per Basquiat, l’autore americano non cerca di penetrare l’enigma della creazione, che appare un’acquisizione indiscutibile (anche) nel personaggio di van Gogh. Ad appassionare Schnabel è quello che rivela la relazione tra il pittore olandese e Paul Gauguin, tra l’artista dei girasoli bruni e il suo tempo.
Trasportato come van Gogh dalla luce della Provenza, Schnabel coglie quel passaggio folgorante di cui non resta niente ad Arles, alcun quadro, alcun edificio a parte un modesto impasse intitolato a suo nome. Tutta la storia di van Gogh, come quella di Gauguin, è segnata dal destino, marcata dall’insuccesso, l’incomprensione e alla fine l’isolamento. Dei campi di grano, del fogliame d’autunno, dei cipressi monumentali, dei giardini selvatici, dei fiori floridi, dei fondali gialli, dell’arancio ardente dei crepuscoli, del colore rovesciato sulla tela come magma incandescente, i suoi contemporanei non sapevano che farsene. Alieno al mondo che lo circondava, l’artista esprimeva un malessere profondo, una disperazione totale e una lucidità intensa, che lo rendeva sovente odioso agli altri.
Il volto lungo di Willem Dafoe, che lo incarna, non rivela alcun recesso in cui potremmo infilarci per meglio comprenderlo, la sua performance in economia, la sua maniera scostante, gli sguardi scollati, la tensione nervosa dimostrano che il pittore non era né folle né malato. Al contrario Schnabel rappresenta con dolorosa acuità la sua situazione di uomo economicamente dipendente dal fratello.
Intingendo in una palette a immagine della sua anima tormentata, l’attore insegue la ricerca di van Gogh di un posto nella società, il suo desiderio di essere riconosciuto. Quello che interessa al regista è rendere conto del mondo nel quale viveva van Gogh, dove l’impressionismo era l’arte dominante, perché è in quel mondo che ritroviamo le convenzioni sociali che lo rigettano.
Anima errante nel bagliore dei colori e nell’oro dei campi, van Gogh non poteva dimorare, non poteva seguire una norma di comportamento o creare una famiglia come il fratello Theo. Nel suo stile paranoico e tempestoso, Antonin Artaud scriveva che era stata la società a uccidere Van Gogh. Senza affermare le cose in maniera così tranchant, Schnabel incarna tuttavia i colpevoli rovesciando la tesi del suicidio e interpretando in maniera troppo didascalica la sua (misteriosa) morte. Ma più verosimilmente è la lucidità che ritorna a ucciderlo come un proiettile e come confessa al dottor Gachet di Mathieu Amalric.
Schnabel manca forse l’appuntamento con Vincent van Gogh ma afferra l’idea che un artista è in parte determinato dai luoghi e dagli usi del suo tempo, mortale, irrimediabilmente mortale. Vincent van Gogh non era un essere sacro, il suo genio non era un mistero divino, la sua arte nasce dal dubbio, il dolore e il sudore, dentro l’impossibile previsione del futuro. Alle torsioni delle sue tele, il regista risponde con gli strumenti del cinema provando a suo modo a governare il caos.